lunedì 3 luglio 2023


MAN RAY

Man Ray (Emmanuel Radnitzky all’anagrafe) nacque a New York nell’Agosto del 1890 da una famiglia di origini ebraiche. ​Da sempre mostrò una spiccatissima sensibilità rivolta al mondo dell’arte che abbracciò in una vasta molteplicità di forme: scultura, pittura, cinematografia, grafica ed infine fotografia, trampolino di lancio della sua carriera e scoperta fortuita. ​Abbandonati gli studi decise di vivere della sua arte e per la sua arte; quasi per gioco acquistò una macchina fotografica allo scopo di immortalare le sue opere.
​Presto i suoi scatti e le sue produzioni artistiche lo portarono all’attenzione di collezionisti e colleghi famosi tra i quali spicca l’artista Marcel Duchamps, esponente di punta del Dadaismo e poi del Surrealismo.
​Assieme a Duchamps e ad un amico collezionista, Man Ray fondò, nel 1915, la “Society of Indipendent Artists”, un’associazione dedita all’esposizione di opere d’arte d’avanguardia che ebbe negli anni a venire buon successo.
​Quasi costretto dalla sua vocazione decise di trasferirsi a Parigi: la cultura americana infatti si dimostrava troppo impermeabile alle creazioni satiriche e provocatorie del tempo, specie se paragonata alla fervente “Città delle Luci”.
​Grazie alle sue ricche conoscenze qui poté iniziare a guadagnarsi da vivere scattando ritratti tra i quali vanno annoverati quelli di molti famosi colleghi: James Joyce, Gertrude Stein, Pablo Picasso, Salvator Dalì, André Breton. ​Rapidamente iniziò a costruirsi la fama di artista poliedrico con la quale oggi è noto. Tuttavia, nel 1940, dovette fuggire da Parigi quando, all’alba dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale, movimenti nazionalisti di matrice antisemita iniziarono a diffondersi in tutta Europa. Fece ritorno a New York ed insegnò arte a Los Angeles, senza però interrompere del tutto la sua produzione artistica. Terminato il conflitto tornò immediatamente a Parigi, la città dove aveva lasciato il suo cuore e qui si stabilì fino all’ultimo dei suoi giorni, il 18 Novembre 1976.
Man Ray fu un personaggio eccentrico, anticonvenzionale e dagli innumerevoli interessi. Amante dell’arte, il suo bisogno di provocazione e il suo desiderio di scuotere le coscienze, lo spinsero a gravitare verso il mondo della “ribellione artistica” incarnato, all’alba degli anni ’20, dal Dadaismo ed in seguito dal Surrealismo di cui lui diventerà il primo nonché uno dei più importanti fotografi. Gradualmente la fotografia, la quale era inizialmente solo un mezzo con cui mostrare indirettamente le sue opere, diventò uno dei suoi interessi principali ed una delle sue fonti di notorietà più importanti.
Iniziò con i ritratti, dapprima molto formali, piuttosto in linea con le regole classiche delle proporzioni e del buon gusto, immagini essenziali, che mettevano in primo piano il soggetto e poco più, ma non per questo privi di espressività. Poi, con l’accreditarsi della sua posizione di artista, i suoi scatti diventarono sempre più ricchi e complessi, le regole iniziarono a cadere, il dettaglio poteva diventare il focus dell’immagine nonché la sua fonte di significato.
Ispirato dalle sue modelle, Ray dedicò anche molta attenzione al nudo femminile. I corpi, spesso rivolti di schiena mostrano le loro curve e la loro sensualità naturale, in pose poco o quasi per nulla artificiose si mostrano con tutta la loro naturalezza e semplicità. ​Man Ray vedeva nel corpo umano un pozzo d’ispirazione: forme, geometrie dettagli, una perfezione propria, spesso ignorata ma degna di essere celebrata da una rappresentazione che mirava ad esaltare e nel contempo trascendere l’erotismo del nudo.
Un altro aspetto che la fa da padrone nei nudi come nella maggior parte dei suoi scatti è l’uso delle luci. I contrasti spesso accecanti e la scala di grigi così limitata non sono tanto un limite dello strumento dell’epoca quanto una scelta stilistica che sta a capo ad una ricerca perseguita dall’artista/fotografo sul potenziale della luce.
​Particolarmente interessato alla capacità di questa nel distorcere la semplicità delle forme la sua fotografia si dedicò ad un percorso di sperimentazione artistica. ​Il culmine di questa ricerca sarà l’invenzione di un vero e proprio stile personale: la surreale “Rayografia”. ​La Rayografia fu scoperta casualmente durante le sue sperimentazioni di laboratorio nel 1921: Ray fece scivolare un foglio di carta sensibile, ancora inutilizzato, all’interno della soluzione acquosa di sviluppo. La luce era in grado di lasciare una forma distorta di tutto ciò che toccava la pellicola ancora impressionabile: l’effetto finale è un’immagine dai contrasti fortissimi, dalle forme distorte e dall’aspetto spettrale.
​Oltre alle Rayografie Ray si dedicò anche a sperimentare altre tecniche di manipolazione fotografica. Famosissime sono le due “f” aggiunte a pennello sulla schiena nuda della modella Kiki de Montparnasse (sua amante) nell’opera “Violon d’Ingres”. ​Un altro tema ricorrente è l’uso dell’insolita tecnica della “Solarizzazione”, una pratica di sviluppo dei negativi i quali, drasticamente sovraesposti, vanno incontro ad un processo di inversione tonale che dona alla fotografia un aspetto unico e sbalzato. ​Le opere fotografiche dell’artista perciò assumono una connotazione propriamente sperimentale ed antepongono la forma ed il concetto di fronte alla bellezza propria o alla rappresentazione della realtà, propria del fotogiornalismo, che scompare totalmente dalle sue rappresentazioni oniriche e surreali.
​Ray con i suoi scatti dipinge perciò un mondo a parte dove le regole e le forme canoniche sono esasperate fino ad essere quasi irriconoscibili. Ma se si sa come guardare allora non si può che apprezzare la semplicità espositiva con cui l’artista crea significati complessi.
​Man Ray vuol dire letteralmente “uomo raggio”. Il nome d’arte proviene dall’abbreviazione dei suoi soprannomi e descrive anche adeguatamente il personaggio! La sua scultura più famosa, “Cadeau”, un ferro da stiro in ghisa con saldati 14 chiodi, fu rubata subito dopo poche esposizioni e l’artista dovette farne un’altra. Alla fine ne creò una serie “griffata” da 5000 pezzi di grande valore collezionistico.
Sulla sua lapide, al cimitero di Montparnasse si può trovare la scritta “Unconcerned but not indifferent” che si traduce con “Tranquillo ma non indifferente”.


 

mercoledì 11 gennaio 2023

Giò Tarantini

 

Giò Tarantini – Per lavoro e per piacere














15 febbraio 2023 ore 20.45
presso la sala polifunzionale della Cooperativa dei Consumatori di Marostica – via Montello, 22.
Ingresso libero.

Main sponsor: Cooperativa dei Consumatori di Marostica
Sponsor tecnico: Laboratorio Fotografico 3T di Bassano del Grappa


Corso base 2023

 




Corso base 2023

Durante il corso vedremo come funziona una fotocamera, come comporre una foto ed esporla correttamente, padroneggiando i tempi e i diaframmi.

Il corso si svolgerà lunedì 13-20-27 febbario6-13-20 marzo 2023. Sono previste un’uscita pratica diurna il 12 marzo e una notturna il 15 marzo.

Le lezioni si terranno nella sede operativa di Corso Mazzini, 77 Marostica alle 20:30.

Le iscrizioni sono aperte fino al 10 febbraio 2023. Per informazioni e iscrizioni: info@marosticafotografia1979.it

Con il patrocinio della Città di Marostica e la collaborazione della Consulta fra le Associazioni Culturali del Territorio.
Sponsor tecnico Laboratorio 3T di Bassano del Grappa e Cooperativa dei Consumatori di Marostica.







venerdì 11 marzo 2022

Lago del Corlo e Pianello Vallon – Valsugana 30 Gennaio 2022

 Lago del Corlo e Pianello Vallon 

 Valsugana 30 Gennaio 2022

Uscita fotografica di Marostica Fotografia 1979

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Gianluca Donadello


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Patri Tess







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Michela Sonda







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Erasmo Gastaldello






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Giorgio Crestan


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Sergio Sartori























domenica 30 maggio 2021

L'esercizio per il mese di Maggio 2021 "specchio e riflesso"

L'esercizio per il mese di Maggio 2021 "specchio e riflesso" riservato ai soci di "Marostica Fotografia 1979" e terminato, ora con piacere vi allego questo articolo sull'argomento scritto nel 2016 da Michele Smargiassi nel blog Fotocrazia per Repubblica. Inoltre sotto trovate tutte le foto che avete inviato nel gruppo Facebook "MF79 gruppo operativo".

 Chissà se Hermann Rorschach amava la montagna. L'epoca storica era quella della scoperta dell'escursionismo e dell'alpinismo, quindi magari ci sta.

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da "Fotodiagnostik", © Davide Baldrati, g.c.

Chissà se Hermann Rorschach si è mai assopito sul bordo di un laghetto alpino e, da quella posizione orizzontale, ha intravisto fra le palpebre semichiuse il curioso effetto di un paesaggio montano che si riflette perfettamente nello specchio dell'acqua.

Chissà se è da lì che gli venne l'idea dei suoi test psicodiagnostici. Quelle macchie simmetriche, apparentemente astratte, in cui i suoi pazienti vedevano di tutto. E da quel che vedevano, lui traeva conclusioni sulla personalità del paziente e sulle sue patologie.

Davide Baldrati (non rivelo nulla di privato che non riveli lui stesso nell'introduzione al suo libro Fotodiagnostick) ha conosciuto due volte da vicino il test di Rorschach: come paziente, una decina d'anni fa, e poi scoprendo nella biblioteca materna un'edizione originale delle tavole.

O forse dovrei dire tre volte. Perché Davide è un fotografo, e ha realizzato le "sue" tavole di Rorschach, semplicemente fotografando, appunto, un laghetto alpino perfettamente specchiante (quello di Antermoia, val di Fassa, presidiato da un rifugio costruito un secolo fa, guarda tu, da un fotografo, Franz Dantone), e poi girandoli di 90 gradi.

Ne trovate dieci, raccolte in un austero professionale cofanetto, montate su cartoncini spessi, pronte per l'uso.

E funzionano, santo cielo se funzionano. Vedo facce, volti mostruosi, profili di animali... Il grifo di un gufo... Davvero basta una torsione dello sguardo per trasformare la realtà di una visione in una visione irreale che produce altre visioni...

Anni fa vidi il lavoro di un'altra fotografa, Francesca Bertolini, che aveva molti punti di contatto con questo (Davide, non è una critica, la cultura è fatta di rimbalzi, ritorni, insistenze), anche se non sfiorava affatto il tema psicanalitico. Anche in quel caso, però, paesaggi specchiati nell'acqua diventavano forme astratte semplicemente perché presentate in un orientamento innaturale.

Il lavoro mi piacque, scrissi per lei un testo sulla complessa relazione fra specchio e fotografia, che non credo sia mai stato pubblicato. Mi fa piacere riproporne i passaggi che si applicano bene a entrambe le ricerche.

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L’icona assoluta, il doppio perfetto. Ma labile, evanescente. Gli mancò, per secoli, la memoria. Le miroir qui se souvient: ecco la fotografia, perfezionamento e apoteosi dello specchio.

Nella preistoria del “desiderio bruciante” per l’immagine automatica ci sono gli specchi appiccicosi dei saggi dell’isola immaginaria di Giphantie, invenzione o meglio premonizione di Tiphaigne de la Roche, capaci di catturare l’immagine fugace della superficie riflettente e trattenerla per sempre. Quel che riusciranno poi a fare le emulsioni ai sali d’argento.

Imitazione transustanziata in immagine, mimesi che diventa semiosi: tutto a posto, gioco fatto, non c’era che da inventarla così, la fotografia, erede assennata dello specchio millenario. Daguerre  con le sue luccicanti lastrine d’argento ben levigato fu il vendicatore di Narciso. E tutto il mondo corse ad ammirare la propria triviale immagine, per la rabbia di Baudelaire.

Narcisi liberati, come Prometeo, dalla schiavitù, dalla dipendenza reverenziale verso lo specchio, che è fedele ma egoista: per farti vedere come tu non potresti mai vederti da solo esige la tua presenza al suo cospetto. Gli specchi memorizzanti sfornati dalla camera oscura, invece, custodiranno il tuo volto in tua assenza, perfino dopo la tua morte.

Fedelmente? Come farebbe un tuo gemello vivente, anzi un clone, una replica bionica perfetta? No, questo nessuno l’ha mai creduto veramente. Neppure dello specchio, del resto. Narciso forse l’unico illuso: e ci morì.

“L’essenza della verosimiglianza è la falsità che colpisce i nostri occhi”: Sant’Agostino parlava della fallacità del mondo, e prese come metafora per l’appunto lo specchio: “Non vi sembra forse che la vostra immagine riflessa nello specchio desideri essere voi stessi, ma sia falsa appunto perché non lo è?”. Perfino la sete positivista di immagini “vere”, semplici calchi meccanici del mondo fisico, alla fine dell’Ottocento, s’arrese di fronte alle – giuste – rivendicazioni autoriali dei fotografi e proclamò alla fine di un esausto dibattito che la fotografia è arte: cioè è menzogna.

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da "Fotodiagnostik", © Davide Baldrati, g.c.

Del resto, proprio la memoria antropologica dello specchio mise in guardia l’umanità dall’illusione di Narciso. La diffidenza atavica, le mille superstizioni legate allo specchio parlano chiaro, e contraddicono ogni credenza nella replica perfetta. Non si dice mal/occhio? Lo specchio cattura, ma trasforma, imbriglia: si fanno fatture con gli specchi.

Lo specchio inghiotte, digerisce, restituisce qualcosa di altro. Riflette e intanto deforma. Una ruga nella sua superficie, e il mondo si cambia in mostro. Quanta fatica per produrre uno specchio piano, assolutamente liscio. Per una replica meticolosa, milioni di possibili anamorfosi: l’infedeltà dello specchio è una questione probabilistica.

Per Jurgis Baltrušaitis Lo specchio “non ci restituisce la realtà ma la frantuma, e con i suoi frammenti ricostruisce un nuovo mondo”. Lo specchio insomma crea. Quindi lo specchio tradisce: e non solo perché dà l’impressione di rovesciare il mondo, scambiando apparentemente la destra con la sinistra. Ma perché fa la parodia delle cose, mascherandola da verità.

Alice attraversa lo specchio, ma il mondo che trova di là non assomiglia affatto a quello di qua. Lo specchio è rivelatore, sì: ma dell’invisibile. Non tanto perché riesce a mostrarci quel lato essenziale del nostro corpo, il volto, che senza di lui ci resterebbe ignoto; non solo perché può far girare il nostro sguardo oltre gli spigoli (periscopio) o dietro la nuca (retrovisore). Perché “vede di più”.

Di specchi magici, indovini, predittori, sono piene le mitologie popolari, e i film di Walt Disney. Non si dice “specchio dell’anima”? In molte culture lo specchio è la soglia che permette di comunicare con i morti. E quand’anche lo specchio rivela una verità, è una verità sovrumana, extrapercettiva, quasi divinatoria. Vampiri e fantasmi non si riflettono negli specchi. Perfino nel giudizio artistico lo specchio ci surclassa: per mettere alla prova la buona composizione di una fotografia, Henri Cartier-Bresson la guardava allo specchio; ma prima di lui lo fece, coi disegni, l’Alberti.

Non icona, dunque: ma doppio. Non è la stessa cosa. Il doppio non è l’identico. Il doppio tollera variazioni, modifiche impercettibili, immette silenziosamente il diverso nell’uguale: e questo lo rende perturbante.

La somiglianza imperfetta dei gemelli inquieta chiunque: Diane Arbus ne fece la metafora visuale della sua fotografia. Lo specchio irrompe sul confine fra imitazione e simbolo. Tra replica e messaggio. Che non sia segno, i semiologi lo sosterranno fino in fondo.

Ma quando arriva la fotografia, le cose cambiano. Perseo usa uno specchio per ritorcere contro la Medusa il suo sguardo pietrificante: con Niépce e Daguerre, Perseo e Medusa vanno a braccetto: la fotografia è lo sguardo medusante che si serve dello specchio come deposito e prova della propria potenza. Specchio e fotografia, gemelli diversi, alleati sospettosi.

Gli specchi vanno maneggiati con prudenza. Tagliano, quando si rompono, e sono sette anni di guai. Accecano e bruciano (Archimede e i suoi specchi ustori). Fotografare gli specchi è un esercizio di coraggio, quasi di incoscienza: guai al Faust che non sa dominare le potenze occulte che stuzzica ed evoca.

Specchi non fatti da mano d’uomo. Se magia dev’essere, sia almeno magia naturalis, come quella indagata dal Della Porta, che di specchi se ne intendeva. La natura, del resto, è generosa di superfici riflettenti. Il mare riflette il cielo su tre quarti del pianeta.

Laghi, stagni, canali, fiumi tranquilli sono specchi a disposizione quasi ovunque. Boschi, manufatti, montagne, tutto ciò che sta oltre la riva si tuffa nel piano acquatico e rimbalza, capovolto e somigliante, uguale e contrario. Visioni pacificate, dov’è il paesaggio a citare se stesso, coi soli propri mezzi.

Le vedute lacustri sono cartoline per antonomasia, perché spontaneamente composte: la linea della riva funziona come un asse di simmetria, i volumi della scena trovano automaticamente equilibrio e forma. Anche un dilettante cava qualcosa di decente da un lago specchiante. Di riflessi nell’acqua sono quindi pieni gli album di famiglia, e i concorsi dei fotoamatori. Nulla di meno preoccupante. Per chi non vuol vedere.

Perché basta poco per scatenare l’occulto che sta dietro lo specchio: una semplice torsione. Nessuna manipolazione, nessun intervento dentro l’immagine.

Solo un giro di novanta gradi, e il volto luciferino dello specchio, anche lo specchio pacifico di un laghetto circondato da arbusti, avvampa. Messo in piedi, in verticale, l’asse di simmetria non rimanda più al mondo dei paesaggi aperti, acquatici, naturali. Non esistono in natura specchi verticali.

E anche gli specchi manufatti, quelli che usiamo ogni giorno nella distrazione, ci si propongono sempre di faccia, frontali: riflettono quel che abbiamo alle spalle, non dividono e non duplicano quel che abbiamo di fronte, come farebbero se li guardassimo di scorcio. Quando così non è, restiamo spaesati. I labirinti di specchi dei luna park sfruttano proprio la nostra incapacità di venire a patti con superfici riflettenti che non includano il nostro riflesso.

In verticale, e di scorcio, lo specchio si maschera, si nega come specchio, si propone invece come doppio disincarnato.

In questi paesaggi dis-orientati vediamo la simmetria, ma perdiamo il riflesso. Allora cervello cerca gestalticamente nuovi principi ordinatori, convincenti spiegazioni di ciò che stiamo percependo. E li trova. La simmetria verticale, nel nostro mondo visuale, è propria solo delle forme viventi. Qualsiasi macchia disposta attorno a un asse verticale tende a organizzarsi nella nostra mente come un profilo di pianta, di animale, un muso, un volto.

L’occhio perlustra, indaga, seleziona, mette a sistema. Quel che trova, naturalmente. Quel che di volti o musi c’è già nell’archivio interiore, nei nostri inconsci album visuali, viene richiamato in servizio per spiegare il mistero. Ricordi di immagini già viste. Gufi. Scimmie. Le fronde degli alberi trasfigurate in ciuffi pelosi, le macchie scure in occhi, orecchie, nasi.

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da "Fotodiagnostik", © Davide Baldrati, g.c.

Un Arcimboldi spontaneo si compone nei segreti canali neuronali, si aggruma tra le nostre sinapsi, si manifesta infine come immagine di qualcosa di possibile. Che cosa? In mancanza di ricordi, di immagini verosimili che spieghino il mistero, tocca ai sogni. Alle fantasie, anche agli incubi. La dissoluzione dello specchio genera mostri. Irreali, ma realistici. I pacificati paesaggi lacustri, piegati ad angolo retto, diventano bestiario senza fine.

C’è un tocco di qualcosa che dà vita a queste forme, le rende plausibili. Ed è la loro imperfezione. La simmetria non è assoluta.

È un semplice problema di ottica: il riflesso su uno specchio d’acqua quasi mai restituisce gli oggetti secondo lo stesso angolo prospettico in cui li osserviamo nella visione diretta. Solo da un certo angolo di visuale l’obiettivo fotografico è in grado di registrare le due immagini, quella diretta e quella riflessa, come prospetticamente identiche, ripiegabili una sull’altra. Tutte gli altri punti di vista generano simmetrie imperfette, deformate dalla parallasse.

Somiglianze perturbate. Ma anche i volti, i musi, le forme naturali sono così, solo apparentemente simmetrici: la natura non si ripete mai. Provate a tagliare a metà una vostra fototessera, ricavate da ciascuna metà un doppio specularmente invertito, e ricomponete mettendo assieme due lati destri e due lati sinistri: nessuno dei due sarà il vostro volto. Entrambi appariranno come androidi di voi stessi, copie robotizzate, innaturali. Viceversa, l’asimmetria di minimi scarti dona il marchio della vita.

Nella triangolazione tra realtà, specchio, fotografia siamo al cuore dell’immagine meccanica, al suo fondamento percettivo e alla sua radice culturale assieme.

Non c’è trucco, non c’è inganno, queste immagini sono impronte del reale, non manipolate. Ma la congiura fra inganno speculare, torsione dello sguardo, incertezza spaziale, produce l’irruzione dell’irreale, dell’inconscio, del turbamento.

Un suggerimento: montare una di queste fotografie su un pannello in grado di ruotare molto lentamente. Cerchino poi gli osservatori di trattenere il più possibile nella loro percezione l’immagine “autentica”, tentino di individuare il punto critico (45 gradi? O di più?) oltre il quale l’inclinazione dell’asse di simmetria non riesce più a giustificare la prima organizzazione di senso (stagno alberato) e l’immagine precipita improvvisamente in un’altra (volto fantastico).

Improvvisamente, ma non istantaneamente. Deve pur esserci un momento di sospensione in cui l’immagine è completamente disorganizzata, sempre distintamente visibile, ma assolutamente priva di interpretazione. Quel momento impalpabile è un limbo magico tra due mondi, tra percezione e senso.

Quello è il luogo più puro della fotografia, specchio fasullo, specchio fatato.

Michele Smargiassi


foto di Andrei Sapovalov








foto di Erasmo Gastaldello





foto di Gianluca Donadello



foto di Giorgio Crestan




foto di Patri Tess







foto di Roberto Vigo













MAN RAY Man Ray (Emmanuel Radnitzky all’anagrafe) nacque a New York nell’Agosto del 1890 da una famiglia di origini ebraiche. ​Da sempre mos...